su di me

La vita è una cosa strana, davvero.
La mia, per molto tempo, è stata come tante: sposa, mamma, maestra elementare. Tutto normale, tranquillo, forse un po’ noioso. Ma una mattina di luglio è cambiato tutto. Avevo quarantasette anni. Mi ricordo, ero in bagno, mi guardavo allo specchio, mi sentivo strana, la mia bocca era un po’ storta. Dovevamo partire per il mare. Mio marito mi ha chiesto se la valigia era pronta, io l’ho guardato e non gli ho detto niente. Non riuscivo a parlare. Lui mi ha invitato a scrivere cosa mi capitava su un biglietto, ma dalla penna sono usciti solo scarabocchi.
Allarme, pronto soccorso, TAC, angiografia, diagnosi. Un ictus mi aveva rubato le parole.
Non so cosa mi passasse nella testa, non riesco a ricordare se i miei pensieri fossero parole o immagini. Mi hanno ricoverata e non capivo perché; vedevo mamma, figli, fratelli, con la faccia stravolta intorno al mio letto.
Mio marito passava le notti seduto su una sedia, vicino a me, spiando il mio respiro. Io invece dormivo pacifica: ero certa che sarei tornata a parlare.
Mi ricordo lo sguardo sbalordito di un’infermiera quando, una mattina, le ho sorriso e le ho detto buongiorno.
E piano piano riaffioravano parole, a volte storpiate, mozze, a volte inventate.
Ho visto la mia TAC: un bel buco nero nel mio cervello. E i medici dicevano che ero stata fortunata. Mi veniva un po’ da ridere, ma forse avevano ragione.
Un mese all’ospedale ti insegna molte cose. Vedi da vicino il dolore degli altri: il pianto di una donna che guarda morire il suo uomo, la rabbia di un ragazzo che non riesce più a camminare, la solitudine di una vecchietta che è felice se solo le accarezzi la mano e le chiedi come sta.
Sono ritornata a casa decisa a riprendermi la vita.
E ce l’ho fatta, grazie alle persone che amo e che mi amano, grazie alla mia caparbia voglia di non arrendermi e a un po’ di umorismo (i miei neologismi erano proprio divertenti!).
Ho trovato un nuovo modo di parlare con gli altri e di ascoltarli, proprio perché ho scoperto il valore delle parole. È strano, ma il vero dialogo con mio marito è iniziato solo quando io ho perso la voce, e lui ha temuto di perdere me.
Un anno dopo mi sono iscritta all’università. All’inizio mi sentivo un pesce fuor d’acqua in mezzo a quei ragazzi, ma ho scoperto di non essere l’unica studentessa “attempata”: ho trovato delle nuove amiche che, come me, stavano realizzando un vecchio sogno. Bellissimo!
Volevo sapere come funziona il cervello. E se il mio funzionava.
Prima degli esami orali ero in preda al panico (quando sono emozionata il mio linguaggio è ancora un po’ aggrovigliato), però mi buttavo lo stesso. Quasi non ci credevo neanch’io, ma dopo i cinque anni previsti dal corso di laurea sono diventata dottore in psicologia. Poi un anno di tirocinio in un consultorio, esame di Stato, e finalmente psicologa.
Ma non mi bastava: volevo diventare psicoterapeuta infantile. Non è stato facile trovare una scuola di specialità che mi accettasse. Mi sono no sentita dire “Sa, signora, alla sua età il percorso sarebbe troppo impegnativo” oppure “Non pensa, dottoressa, che avrebbe difficoltà ad integrarsi nel gruppo classe? Sono ancora ragazzi…” Ho pianto di rabbia e di sconforto. Ma poi finalmente ho trovato chi era disposto a puntare su di me.
E così sono psicoterapeuta. Adesso è il mio lavoro. Ma non il solo: nei momenti liberi scrivo.
Noi donne troppo spesso rinunciamo ai nostri sogni per permettere a marito e figli di realizzare i loro. Così succede che loro crescono, imparano, scoprono il mondo e noi restiamo indietro, a guardare e aspettare… Aspettare cosa? Di andare in pensione e chiederci dov’è andata la nostra vita?
È così bello, invece, continuare a crescere anche “da grandi”.
Adesso la mia vita è vera vita; sono ancora moglie, madre, e anche nonna, ma lo sono in modo diverso, perché sono anche altro. Una donna intera, che ogni tanto inciampa nelle parole. Ma fa niente.
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